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IL TRIANGOLO CON QUATTRO LATI

08.11.1996

Nella coalizione che sostiene il governo brillano soprattutto le contraddizioni. Nello stesso tempo, con l’opposizione il centrosinistra rischia ogni giorno il muro contro muro. Converrà cercare di districare queste due malattie del maggioritario italiano, e vedere se c’è un medico e una cura prima che si cronicizzino con esiti nefasti. In primo luogo, il governo ha una palla al piede, «sconta un handicap sempre più grave» che ha nome Rifondazione comunista. È un giudizio non particolarmente originale, ma che assume i caratteri di una valutazione politicamente pesante se a formularla è Sergio Cofferati, che l’ha consegnata a un’intervista pubblicata ieri dalla Stampa. Perché le implicazioni dell’analisi del segretario della Cgil sono radicali, e possono essere così riformulate: può il governo dell’Ulivo convivere con il «partner esterno» rappresentato da Bertinotti? Secondo il leader della Cgil, no. O almeno non può convivere alle condizioni attuali, in cui ogni negoziato tra l’esecutivo e il sindacato è «a sovranità limitata» e ogni decisione concordata viene poi ridiscussa con Rifondazione comunista. Si tratta di una diagnosi fondata. Se vige il criterio della concertazione, occorre che non ci siano sedi esterne di ridiscussione. Il triangolo della concertazione ha tre lati (governo, sindacati e imprenditori) e se i lati diventano quattro siamo in presenza di un triangolo con quattro lati, cioè una figura irrazionale. Se all’orizzonte c’è il ridisegno complessivo dello Stato sociale, occorre un presupposto essenziale, «e cioè la piena titolarità del governo e la piena coesione della maggioranza». Fornita la diagnosi, Cofferati si rifiuta ragionevolmente di fornire terapie. Ci pensi Prodi. È lui che deve sciogliere l’equivoco di Rifondazione. E qui non siamo più nel terreno relativo al funzionamento del patto di concertazione. Si entra in piena bagarre politica. Perché l’equivoco del rapporto con Rifondazione viene da lontano. Prende forma con gli accordi di desistenza per le elezioni della primavera scorsa; si consolida con la fiducia parlamentare che Bertinotti ha concesso senza assumere impegni vincolanti; e si manifesta regolarmente durante l’attività di governo, allorché le scelte devono essere puntualmente patteggiate con Bertinotti. Per gestire una situazione così squilibrata ci voleva una buona spregiudicatezza politica, la capacità di opporre ricatto a ricatto, veto a veto. Questo compito spettava politicamente a D’Alema, ma il Pds soffre troppo la concorrenza del massimalismo di Rifondazione; e dunque la gestione del negoziato continuo con Bertinotti è stata delegata a Prodi: il quale, prima che interessi di partito da tutelare, ha come obiettivo prioritario la durata del governo, anche a costo pertanto di alcune concessioni di programma. Ma il problema della convivenza con Rifondazione deve essere valutato guardando al di là dell’emergenza attuale. In queste settimane è in gioco una posta troppo importante per sollevare il problema politico del come vivere senza Bertinotti. Vige il principio dello smussare gli angoli, con gli alleati e con l’opposizione. Prodi ha imparato a usare alla lettera il «troncare e sopire» manzoniano. Ieri ad esempio, dopo una giornata che aveva visto uno scontro frontale sulle deleghe della finanziaria, con Silvio Berlusconi che parlava di «dittatura fiscale», Prodi ha dichiarato che con l’opposizione è cominciato un dialogo. Mentre in realtà l’unica cosa che si capisce è che il Polo fa la voce grossa sulla finanziaria per dimostrare la propria determinazione contro il governo in vista della manifestazione antitasse di sabato, e che la faccia feroce contro la legge di bilancio è la maschera dietro cui si cela il possibile patteggiamento per la Bicamerale. Bizantinismi? Sì, ma non solo. Al momento c’è in campo una sola questione, e cioè il varo della finanziaria. Ma a partire dall’inizio del 1997 non si tratterà più di tenere sotto controllo le grandezze macroeconomiche. Entreranno invece in gioco i grandi temi che l’Ulivo aveva promesso di affrontare: le riforme istituzionali, la ristrutturazione selettiva del Welfare, la riforma del fisco, la ridefinizione di una politica di sviluppo e di modernizzazione del Paese. Sono compiti che implicano nello stesso tempo la saldezza della coalizione di governo e un modus vivendi con l’opposizione. Perché non sarà possibile mettere in moto un programma di riforme sostanziali dovendo passare ogni giorno sotto le forche caudine di Bertinotti, e neppure affrontando ogni giorno uno scontro parlamentare con il Polo. Qualcuno dovrà quindi quadrare il cerchio. Dovrà cioè tentare l’impresa simultanea di fare i conti sino in fondo con Rifondazione comunista, prendendo in pugno la barra della coalizione di centrosinistra, e contemporaneamente restare l’interlocutore riconosciuto del Polo sulle riforme costituzionali. Questo qualcuno è ovviamente Massimo D’Alema: tocca a lui e non ad altri il ruolo dello stabilizzatore della maggioranza e di garante dell’opposizione. È un esercizio che implica acrobazie e rischi molto elevati. Infatti se fallisce può significare l’addio ai progetti di razionalizzazione; ma se dovesse riuscire, allo stabilizzatore e al garante nessuno poi potrebbe negare una semplificazione e una razionalizzazione ulteriori, vale a dire la legittimazione definitiva come candidato alla guida del paese.

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