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LA FINE DELLA POLITICA NEUTRALE

23.12.1996

Quale che sia il risultato a cui porterà, l’intervento del ministro Treu nella controversia sul contratto dei metalmeccanici è una delle prove risolutive della fine prematura del modello «concertativo» su cui era stato costituito il governo Prodi. Naturalmente non occorreva attendere l’iniziativa del ministro del lavoro per individuare l’esaurimento dello schema consensuale nella gestione della politica economica. I recenti scontri tra il presidente della Confindustria Fossa e il governo avevano già mostrato l’emergere di un rapporto altamente conflittuale fra settori imprenditoriali ed esecutivo. Il contratto dei metalmeccanici tuttavia ha messo bruscamente allo scoperto che la figura geometrica a tre lati (composta da governo, sindacati, industriali) su cui doveva reggersi l’equilibrio politico e sociale garantito dal governo dell’Ulivo non è più un equilatero, ma si è deformata in un triangolo scaleno. I lati insomma sono diventati di lunghezza diversa. Se non fosse così, non si sarebbe avuto un intervento come quello di Treu, preoccupato di suggerire anche il dettaglio degli aumenti salariari (duecentomila lire mensili). Entro una prospettiva accettata di politica disinflazionistica, il governo avrebbe potuto indicare semplicemente il quadro delle compatibilità economiche, stimolando le parti a chiudere il contratto entro le compatibilità stesse. Con l’ingresso nella contrattazione, e con l’indicazione per l’accordo di una cifra assai più vicina a quella chiesta dal sindacato che non a quella dichiarata accettabile dalla Federmeccanica, l’esecutivo ha semplicemente dato la prova ulteriore di non essere in una posizione terza, e meno che mai in una posizione neutrale. Non sarebbe un gran male, perlomeno nel senso che la presa di posizione governativa sgombra il campo da numerosi equivoci. Adesso si sa che il governo di centrosinistra si avvia a consolidarsi come un governo dai comportamenti esplicitamente «socialdemocratici». È un esito per molti versi naturale, se non fosse che è stato raggiunto in modo caotico. Il centrosinistra infatti aveva ottenuto il mandato a governare presentandosi come un migliore gestore dei conflitti sociali, come il depositario di una superiore sapienza e prudenza nella regolazione degli interessi economici. Ora invece la maggioranza è costretta ad abbandonare gli abbellimenti retorici. Si trova nella condizione di dover governare il paese da sinistra. E questa ricollocazione dell’esecutivo non è avvenuta sulla base di precise ispirazioni programmatiche, bensì in seguito alle continue compromissioni imposte da Rifondazione comunista. Non è affatto un caso che Fausto Bertinotti sia diventato il protagonista assoluto e spettacolare della trattativa sul contratto dei metalmeccanici, costringendo anche Massimo D’Alema a rincorrerlo e a incalzare il governo per proporre una soluzione. Tutto questo comporta conseguenze piuttosto ragguardevoli. Perché nulla in teoria vieta che un governo di sinistra sia in grado di produrre una politica di sviluppo economico e di incentivo alle imprese, offrendo quindi anche al mondo imprenditoriale una sponda eficace. È difficile, specialmente in un periodo di stagnazione e di vincoli crescenti, ma non impossibile, soprattutto se questa sponda è fatta di realismo e prevedibilità dei comportamenti. Invece la situazione attuale appare pochissimo prevedibile. La questione sociale, di cui la controversia sul contratto dei metalmeccanici è un aspetto, ha cominciato a mischiarsi con la questione politica. Ciò significa che l’accordo fra parti private, imprenditori e sindacato, sarà il frutto di un accordo parallelo fra parti politiche appartenenti alla stessa maggioranza. Il rischio principale è che questo modello si replichi all’infinito, conferendo non solo alle relazioni industriali un inconfondibile sapore di anni Settanta. E chi rischia di più in questa prospettiva è proprio l’azionista di riferimento del governo, cioè Massimo D’Alema. Il quale nell’ultima settimana ha puntato a due obiettivi di notevole rilievo. Prima infatti ha cercato di proporsi come l’autentico perno del centrosinistra, prospettando un contenuto «egemonico» del Pds fino al centro dello schieramento politico. E subito dopo, con un eloquente discorso alla Camera sul tema del finanziamento dei partiti, ha rivendicato, prima ancora che il primato, la dignità della politica, candidandosi implicitamente come perno centrale dell’intero sistema politico italiano. Per il profilo a cui D’Alema ambisce, quello cioè di un uomo politico che non nasconde le sue ambizioni di leader di parte ma neppure quelle di interlocutore per tutto il paese, dev’essere molto insoddisfacente osservare l’andamento convulso, e in definitiva poco razionale, che l’azione di governo assume allorché mette il dito fra posizioni conflittuali. Con ogni probabilità l’immagine del governo, in quanto governo di sinistra, non è più modificabile. Si tratta però di farla diventare un’immagine affidabile, coerente, non la somma di due fisionomie (cioè di due sinistre) incompatibili. D’Alema si è assunto il compito del grande razionalizzatore di sistema, lavorando con pazienza e determinazione per l’avvio delle riforme istituzionali. Ma nello stesso tempo deve razionalizzare politicamente il centrosinistra, che è un’operazione apparentemente più limitata ma probabilmente perfino più difficile. Altrimenti, dissoltosi tristemente il triangolo della concertazione, rimarrebbe intatto il triangolo con Prodi e Bertinotti. E neppure un uomo politico abile come il capo del Pds può pensare di offrire una prospettiva di governo e di sviluppo al paese basandosi su una serie continua di infedeltà e sui poco brillanti compromessi successivi.

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