Il Pds vive malvolentieri il dibattito sul comunismo. I decenni denudano la storia dai travestimenti, il tempo riduce l’ideologia a una tragica mascheratura intellettuale. Sembra impossibile addirittura spiegare perché qualcuno in essa ha creduto, e ha continuato a crederci anche quando la fede si era rivelata un terribile errore o un calcolo feroce. Anche Massimo D’Alema, nella sterminata lettera pubblicata ieri sull’Unità, sembra confessare la propria incredulità per avere creduto: «Io stesso mi sono chiesto che cosa legasse ancora uno che, trovandosi a Praga il giorno dei carri sovietici, aveva ritenuto naturale scendere in piazza a gridare e a protestare, con quelli – i sovietici – che i carri ce li avevano mandati». Il testo di D’Alema ha l’aspetto di una relazione congressuale. La parte relativa a «i nostri conti con il comunismo» rappresenta la parte finale (breve, in proporzione) di un’ampio svolgimento in cui il segretario rivendica il ruolo cruciale del Pds nella transizione dal 1992 a oggi, la sua politica di alleanze, i risultati raggiunti dal governo, i progetti di riforma costituzionale. Come gli accade sempre, D’Alema è convincente quasi su tutto. Tranne che nello spiegare perché i comunisti italiani, con tutte le loro specificità, le loro riserve antisovietiche, la loro conclamata italianità, hanno mancato giusto di trent’anni l’appuntamento con la revisione di Bad Godesberg. Non si tratta solo di una questione storica. Non c’è di mezzo soltanto un giudizio a posteriori sull’esperienza politica del Pci. E il punto decisivo non consiste soltanto nel richiedere al segretario del Pds di spiegare come mai nell’élite del partito la reincarnazione di una parte maggioritaria del Pci nel Pds è avvenuta senza troppi drammi politici. Se si trattasse soltanto di descrivere come è avvenuto il passaggio da una forza come il Pci, ispirata da una delle maggiori religioni della modernità, a un partito come il Pds, dalla fisionomia e dal programma stiracchiati in modo piuttosto postmoderno, il compito probabilmente sarebbe interessante solo come pratica storiografica. Ma il fatto è che l’identità del Pds non è un problema di storia, bensì una questione politica, che agisce qui e ora, e che limita notevolmente le potenzialità del Pds, gettando una luce piuttosto incerta tanto sull’evoluzione della sinistra italiana quanto sulla stabilità dell’assetto politico attuale. Perché malgrado tutto il Pds è un partito che non riesce a sfondare: malgrado l’abilità tattica di D’Alema, nonostante lo storico radicamento nel territorio, nonostante il potere effettivamente conquistato al centro e sul piano locale. Anzi, c’è la sensazione che le dimensioni del partito siano stabilizzate. Perché l’Ulivo va bene, ma il Pds va malino: il centrosinistra guadagna consenso capitalizzando l’effetto Euro, mentre il partito di D’Alema sembra destinato a restare un «partito del ventun per cento»: forse il maggiore partito italiano, almeno nelle condizioni attuali, ma un partito incapace di esprimere un indirizzo maggioritario alla coalizione di cui fa parte, un orientamento politico di guida, se si vuole un’egemonia politico-culturale. Diagnosi pregiudiziale? Già, e allora perché tutti questi affanni per evocare un ectoplasma come la «Cosa 2», cioè la fumosa ipotesi di un partito capace di attrarre altre culture politiche? Se il Pds fosse davvero competitivo non si annuncerebbero stati generali della sinistra, né fasi politiche costituenti. D’Alema e lo staff pidiessino hanno il diritto di giudicare una forzatura imputare l’incompleto potenziale politico del Pds al suo passato e al modo in cui da questo passato il Pds è uscito. Ma il passato conta: conta per An, che ha raggiunto i suoi limiti fisiologici mentre sembrava lanciata verso chissà quali successi, e conta anche per il Pds. La sua trasformazione era avvenuta con la benevolenza della classe intellettuale, favorevolmente orientata verso questa metempsicosi. Ora la polemica degli intellettuali non fa che mettere allo scoperto ciò che molti elettori per conto loro hanno continuato a pensare del Pds: cioè che la storia da cui viene il partito di D’Alema non è una storia di cui essere orgogliosi. Per questo, il Pds è legittimato soprattutto dagli alleati. Può essere una parte di una coalizione. Ma non ha ancora la patente di fiducia necessaria per correre da solo.
19.01.1998