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LAVORI IN CORSO A SINISTRA

07.07.1996

A dispetto di una settimana di discussione pubblica molto accesa, non si è ancora capito che cosa abbia spinto Massimo D’Alema a riaprire il cantiere dei lavori a sinistra. Il segretario del Pds era reduce da un successo elettorale insperato. La vittoria dell’Ulivo aveva rappresentato la consacrazione delle sue capacità di tattico. E la formazione del centrosinistra era avvenuta sulla base di un principio politico semplice e lineare, cioè l’alleanza fra il partito ex comunista e la sinistra cattolica. C’era, è vero, qualche fogliolina laica, e c’erano anche alcune figure residuali dell’area socialista. Ma non c’è dubbio che se l’Ulivo ha, o aveva, un cuore, questo pulsava sul ritmo del compromesso fra il Partito popolare e il pds. Compromesso che in parte risaliva alle storiche contiguità fra la sinistra democristiana e il pci, e in parte era stato stipulato come «fronte del rifiuto» verso Berlusconi e la sua creatura politica. Date queste condizioni, non c’era in apparenza alcun bisogno di lanciare messaggi all’area socialista dispersa a suo tempo dal crollo del psi. Sono anni che il pds cerca di accreditarsi, più o meno plausibilmente, come l’autentico esponente ed erede del socialismo riformatore. Niente quindi impediva di considerare definitivo l’incontro politico con i cattolici del ppi, senza cercare avventure, tenendo anche nel debito conto che la vicenda craxiana si era caratterizzata per l’aspra polemica proprio contro la sinistra democristiana e il Pci-Pds, cioè i due futuri sottoscrittori del patto antiberlusconiano. Invece, D’Alema ha sparigliato. Ha riconosciuto a Craxi (al Craxi «buono») di avere intuito «l’esigenza di una modernizzazione» e ha mandato messaggi irresistibili a Giuliano Amato, il politico più abile e l’intellettuale più sofisticato giunto al potere sotto l’ala craxiana. Dopo di che, mentre Amato rispondeva che «vale la pena di tentare», è scoppiato il finimondo, tutto è entrato in movimento. È realistico pensare che il segretario del pds non avesse calcolato gli scossoni che le sue aperture hanno provocato? Insomma che il semi-sdoganamento di Craxi fosse soltanto un espediente retorico per riprendere uno dei giochi preferiti a sinistra, la seduta di autocoscienza su com’è e come dovrebbe essere la sinistra in Italia? Difficile crederlo, per un leader prudente come D’Alema, anche se di fronte ai primi clamori della discussione il segretario pidiessino ha risposto piuttosto accademicamente, segnalando con un certa scolasticità la necessità di costruire una sinistra capace di riassumere in sé le ragioni del riformismo socialista: riflessioni che potrebbero risultare di qualche pensoso interesse in un seminario politico ma di scarso spessore nella politica «pratica», con un pds impegnato nell’acrobazia di governare il risanamento del Paese senza entrare in conflitto con se stesso. Ci sarebbe per la verità anche l’ipotesi del marketing politico: sotto questa luce, D’Alema potrebbe avere giudicato recuperabile da sinistra quel quindici per cento di elettorato che votava psi. Ma è un’ipotesi scarsamente realistica se si pensa che per una quota ampiamente maggioritaria quello socialista non era più ormai da tempo un elettorato di sinistra, se è vero che la sua tradizionale ripugnanza per il connubio «cattocomunista» lo ha portato in prevalenza sulle sponde del Polo. E allora? Si può concedere senza alcun pregiudizio che D’Alema avverta davvero l’esigenza di rettificare in via definitiva l’immagine del pds, raschiando via le ruggini postcomuniste. Tuttavia per comprendere le sue iniziative occorre anche fare i conti non con l’ideale ma con la situazione politica effettuale. D’Alema, innanzitutto, ha fatto capire che dell’Ulivo non gliene importa nulla. Per un realista come lui, le coalizioni elettorali si possono sempre rimettere in piedi, con le contrattazioni al momento dovuto. A lui interessa, com’è logico per un postcomunista perfetto, il pds: e cooptando in qualche forma alcuni generali e colonnelli ex socialisti può facilmente elevare la quota di egemonia del pds sull’intera sinistra. Qualificando il suo partito come una formazione robustamente socialdemocratica, da un lato fa sbiadire i progetti veltroniani ispirati dalla vaghissima idea del «partito democratico»; dall’altro, dicendo «il socialismo sono io», riequilibra la bilancia a sinistra, consegnando Rifondazione comunista a un ruolo di pura testimonianza, a un antagonismo che alla lunga potrebbe risultare sempre meno credibile. E poi, naturalmente, c’è il ruolo particolarissimo di Giuliano Amato. Cioè una figura che evoca alcune caratteristiche attraenti oggi e potenzialmente ancora più interessanti in prospettiva. Amato infatti riassume in sé le qualità dell’uomo di governo e del virtuoso di temi costituzionali. Per le necessità istituzionali di D’Alema, che ha un interesse strategico nel fissare definitivamente il funzionamento del congegno bipolare, l’ex teorico della «grande riforma» craxiana, semipresidenzialista allora come oggi, può essere il meccanico capace di smontare e rimontare le istituzioni nel caso che centrosinistra e centrodestra decidano di mettere in pista la macchina delle riforme. Nel caso poi che le riforme dovessero implicare un governo diverso, non sarebbe colpa di nessuno, ma solo un felice dono del caso, se D’Alema si trovasse a disposizione, nel momento più critico, l’uomo giusto per il posto giusto.

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