gli articoli LA STAMPA/

LUOGO COMUNE USA E GETTA

21.04.1997
SOCIETA' CULTURA & SPETTACOLI
Da "logica del maggioritario" a "solidarietà e efficienza" a "bipartisan": quanto dura una formula in Italia?

Oggi i luoghi comuni hanno una vita breve. Cominciano a serpeggiare come idee originali, come un lessico alternativo, come scoperta di alcune élite piuttosto soddisfatte della propria creatività concettuale. Dopo di che tracimano, dilagano, si trasformano in conoscenza diffusa. Quando tutti, o quasi, hanno capito come maneggiare una formula o una nozione alla moda, vuole dire che «quel» luogo comune ormai si è consumato. Ci ha stufato. È da rottamare. Ne occorrono di nuovi. C’è qualcuno, infatti, che a destra ancora osa citare la celebre «logica del maggioritario» che fece faville nella stagione estate-autunno 1994, fino a dare luoghi a curiosi fenomeni di fondamentalismo uninominalistico? Oppure, a sinistra, c’è ancora qualcuno capace di promettere che l’Ulivo saprà combinare «solidarietà ed efficienza»? Cose d’altri tempi, puro trash politico. Di fronte alla prospettiva del famigerato Terzo Millennio, risulta inelegante lasciarsi andare a espressioni sensibilmente fuori moda come «sistema paese», o «qualità totale», e neppure «poteri forti» (che difatti nessuno cita più). È ancora consentito invece sviluppare riflessioni sul fordismo, il postfordismo, il toyotismo, la produzione «snella». Il postfordismo, finalmente e grazie al cielo, ha tolto di mezzo l’aggettivo postindustriale, che aveva inflazionato il decennio Ottanta. Oltretutto, ha il pregio di conferire ai discorsi un coefficiente di scientificità, ma anche di empirismo verificato dai fatti, dall’esperienza sul campo: quando un economista o un sociologo parlavano delle società postindustriali, veniva subito da pensare che fosse una formula vuota, un imbellettamento dell’assenza di pensiero, una concessione al trend (che qualche disperato che lo usa ancora) o al mood (che ormai nessuno usa più, e che quindi è consentito recuperare) di un’epoca piuttosto futile. Mentre al contrario dire «postfordismo» comunica la sensazione che chi ne parla ha conosciuto da vicino la fabbrica «fordista», basata sulla produzione standardizzata di massa e sulla divisione del lavoro nelle catene di montaggio. Magari ci ha proprio lavorato, come Aris Accornero. E quando Marco Revelli scrive: «La robotizzazione dei reparti chiave nella morfologia del ciclo lavorativo… L’introduzione del Digitron a Mirafiori», si avverte l’orgoglio dello studioso del taylorismo «che sa quello che dice». Nello stesso tempo, forti di questa consapevolezza, ci si può sentire autorizzati a parlare della società contemporanea e futura, «postfordista» in quanto vede e vedrà il trionfo del computer, del digitale, del leggero rispetto al pesante, dei bit di Negroponte rispetto agli atomi della realtà, dell’immagine, del look (da evitare, però, se possibile, quest’ultimo). Tutto questo semplicemente pronunciando le poche sillabe di postfordismo e aggettivi derivati, e facendo sempre in modo di assumere un atteggiamento disincantato, «postideologico» ma non postmoderno, perché il postmodernismo è certamente out (ammesso che si possa ancora dire out): e non parliamo del pensiero debole, che non si può neppure più citare in pubblico, proprio perché Gianni Vattimo e Aldo Rovatti sono arrivati troppo presto, e quindi il concetto si è logorato. Ancora un po’ di pazienza e saremo certamente autorizzati a procedere al recupero anche del pensiero debole, che a occhio sembrerebbe ancora piuttosto adeguato per interpretare la società «flessibile» che si prepara a «virare il secolo» e a entrare nel già citato Terzo Millennio. Che cosa ci aspetta, poi, nel prossimo Millennio, lo abbiamo già messo a fuoco: è la «globalizzazione», un tormentone che ha già cominciato ad affliggerci e di cui si comincia già a discutere nei bar e nelle feste di compleanno. Ronald Dore, esperto dei capitalismi mondiali, ha già segnalato che nel mondo culturale angosassone la globalizzazione è diventata un tema da narcotrafficanti della cultura: «Nel catalogo di Harvard vi sono 188 volumi con titoli che contengono la parola "globalizzazione"… Alcuni titoli suggeriscono che la globalizzazione sia una cosa buona, altri che sia una cosa cattiva; altri ancora mettono in dubbio il fatto stesso che stia accadendo». E segnala anche che per mettere in ridicolo i propagandisti della globalizzazione è stato coniato lo slogan «globalization is globaloney», dove va chiarito che «baloney» significa mortadella bolognese, e in senso figurato una balla. Da cui, volendo, la globalizzazione è una balla globale, una globalla. Ma la globalizzazione, come pure Maastricht e la minacciosa «Europa dei banchieri» lanciata da Barbara Spinelli, ha anche i suoi nemici. Il vero, grande nemico politico, il pericolo pubblico numero uno, lo Zorro dell’antagonismo anticapitalista è naturalmente Fausto Bertinotti. Che è diventato un luogo comune vivente, uno stereotipo incarnato, perché tutti, quando parlano di lui, si sentono autorizzati a deprecarne le proposte o le provocazioni, così come a indicarne con sospetto l’eleganza. Si depreca ancora adesso l’ipotesi di tassare i Bot oltre i due-trecento milioni, oppure l’idea di introdurre la malefica imposta patrimoniale, nello stesso modo in cui si sottolinea il suo gusto per le giacche di tweed e le camicie scozzesi, e ultimamente l’inquietante collare e custodia di cuoio per gli occhiali. Ma questa è roba vecchia. L’ultimo Bertinotti propone addirittura di introdurre una tassa sull’innovazione tecnologica, dato che gli investimenti aumentano la produttività e quindi penalizzano i livelli di lavoro e occupazione. Proposta folle? Può anche darsi, come ha strillato il presidente della Confindustria Giorgio Fossa, ma finora non si sono sentite parole molto convincenti e capaci di smentire la distruzione di lavoro umano provocata dalla diffusione della tecnologia. E quindi Bertinotti è diventato l’avversario, simbolico e concreto, di tutti coloro che sostengono idee convenzionali, «liberali e liberiste», sull’attuale situazione politico-economica. Ad esempio quelli impegnati molto pittorescamente nella «retorica dei tagli», come se i tagli fossero qualcosa di indolore, quasi di piacevole, e non invece qualcosa di sanguinoso e crudele: soprattutto nella condizione italiana di questo momento, che a fine anno, se si fa il 3 per cento del Parametro, potrebbe mostrare un avanzo primario di circa 120 mila miliardi. Ciò significa che al netto degli interessi sul debito pubblico, che sono una pesante eredità del passato, lo Stato è in attivo per 120 mila miliardi: e allora, dice Bertinotti, non si capisce dove si può ancora tagliare, e finora non sembra avere ricevuto precisazioni particolarmente dettagliate. In realtà la retorica dei tagli fa il paio con un altro dei grandi luoghi comuni che circolano in questi mesi, cioè con il terribile «crollo dei consumi» che avrebbe messo l’Italia in ginocchio. Pochi giorni fa, parlando del calo dell’inflazione, Gianfranco Fini ha dichiarato: «I prezzi sono scesi anche e soprattutto per una paurosa contrazione dei consumi». Romano Prodi ha avuto buon gioco nel segnalare che nel 1996 i consumi, presunti crollati, sono cresciuti dello 0,7 per cento e secondo le previsioni dell’Ocse nel 1998 cresceranno dell’1 per cento. Che forse è una crescita lenta, ma sicuramente è qualcosa di diverso da un crollo «pauroso». Eppure la retorica del crollo dei consumi non si placherà. Per risolvere una volta per tutte questa controversia tra polo-catastrofisti e ulivo-ottimisti si potrebbe creare, ma certo, un’Authority. E magari metterci un Garante, come sembra che il governo stesse per fare con la spedizione in Albania, per superare l’opposizione di Rifondazione comunista. C’è una vocazione evidentemente insopprimibile al compromesso, che sarebbe capace di tutto pur di suddividere e ripartire le responsabilità. Il garante pacifista di un’operazione «umanitaria» fatta di militari equivale concettualmente all’attuale ricerca delle «larghe intese» dopo avere giurato sulle leggi di Duverger e sulla logica del maggioritario. Ma le larghe intese non sono qualcosa di insopportabilmente vicino al trasformismo e al consociativismo? No, naturalmente. Il consociativismo era un losco comportamento fatto di accordi negoziali sotterranei, senza trasparenza, un inciucio ante litteram. Le larghe intese sono qualcosa di pulito, trasparente, addirittura solare: anzi, deliziosamente «bipartisan». Un aggettivo introdotto dagli scienziati politici, che grazie soprattutto alle capacità imitative di Berlusconi sono riusciti con «bipartisan» dove non erano riusciti con «bandwagoning» (saltare sul carro del vincitore). Oggi tutto ciò che non è bipartisan è inevitabilmente rétro. Rimane un unico problema, dato dal fatto che non ci si è ancora messi d’accordo sulla pronuncia esatta di bipartisan. Finora i pronunciatori del bai guardavano con superiorità, e dall’alto dei vocabolari, i pronunciatori del bi. Poi si è sentito in Parlamento il senatore Leopoldo Elia, un’autorità giuridica e politologica, dire, italianamente, bipartisan proprio come è scritto, e insistere malgrado le pronunce contrarie. Qui sì che ci vorrebbe davvero un’Authority, un garante, un sito su Internet per una discussione approfondita. Oppure avere pazienza, perché fra qualche mese, c’è da esserne sicuri, bipartisan non lo dirà più nessuno, tranne qualche ritardatario.

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