gli articoli LA STAMPA/

MATTEUCCI, IL "DURO" DEI LIBERALI

10.06.1996
SOCIETA' CULTURA & SPETTACOLI
IL POLITOLOGO BOLOGNESE COMPIE SETTANT'ANNI E LASCIA L'UNIVERSITA'

Ad accennare ai suoi settant’anni si può rischiare una reazione brusca. Perché a Nicola Matteucci, filosofo, costituzionalista, teorico del liberalismo, non piacciono le smancerie private così come non ha amato le convenzioni accademiche. Eppure alla fine ha accettato di buon grado che nei giorni scorsi l’università festeggiasse la fine della sua carriera di docente. E ieri una maxifesta nella sua villa immersa nella campagna bolognese ha dato l’ultimo tocco, quello mondano, al suo compleanno più importante. Non ha mai voluto accettare etichette: «Sono un liberale». E tutto orgoglioso citava Mario Melloni, il Fortebraccio dell’Unità, che lo punzecchiava chiamandolo nei suoi corsivi «il generale Dalla Chiesa del liberalismo». E Beniamino Placido durante qualche scambio polemico: «Matteucci? Era un liberale, ora sembra un fondamentalista del liberalismo». Matteucci ha studiato a Napoli con Benedetto Croce, ma la sua vita è stata consegnata al Mulino. Entra tutte le mattine nel suo ufficio nel centro di Bologna, uno sguardo ai giornali, qualche battuta con chi passa da quelle parti (uno dei più affezionati, Angelo Panebianco). Fra le mura di Strada Maggiore si sente a casa sua: ancora oggi nelle riunioni del Mulino si picca di avere diretto la casa editrice con piglio decisionista ma soprattutto «con sprezzo assoluto del mercato», e di avere diretto la rivista con il più sovrano disinteresse per le simpatie o le appartenenze politiche degli autori. Aristocratico naturaliter, si è avvicinato agli studi sulla democrazia come a un antidoto agli irrigidimenti, al potere che si ossifica, alle élite che non circolano più. È stata la grande lezione della Democrazia in America di Tocqueville a comunicargli il brivido della esperienza democratica come qualcosa di continuamente attuale, collettivamente eccitante, formicolante di modernità. L’amore per Tocqueville si concretò a suo tempo in una serie di saggi e si completa oggi in un volume, che uscirà a fine anno sempre con il Mulino, che presenta una biografia ricostruita attraverso l’epistolario del grande intellettuale francese. Ma al di là di Tocqueville è difficile costringere Matteucci a identificarsi su un autore, su una teoria, su un filone di pensiero. L’unico aspetto che ne ha sempre contraddistinto la riflessione è lo sforzo costante di collocare l’analisi filosofica in una dimensione storica. Lo si avverte nei suoi libri, da La rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale agli studi come Il liberalismo in un mondo in trasformazione. Lo si avvertiva anche nel lavoro svolto con Norberto Bobbio nel coordinamento del Dizionario di politica, una delle opere che hanno raggiunto la dimensione del classico, e lo si avverte nel lavoro che conduce oggi nell’ambito della direzione dell’Enciclopedia delle scienze sociali. Ma lo si percepisce soprattutto ad averne osservato da vicino le simpatie intellettuali, dai flirt intellettuali più rapidi agli amori e alle passioni più costanti. Perché è vero che è un uomo di autori definitivi: Machiavelli, Tocqueville, Croce, con i quali dialoga continuamente. Ma ciò non gli ha impedito di guardare con occhi spregiudicati a tutto il Novecento, ora facendo i conti con la democrazia «dialogica» di Hannah Arendt, ora appassionandosi alla produzione di uno studioso come Friedrich von Hayek, economista capace di incursioni folgoranti nella psicologia e nell’antropologia. Liberale, liberista? Matteucci ha seguito fino in fondo le sue scelte politiche, schierandosi a destra e scrivendo sul Giornale di Vittorio Feltri articoli fiammeggianti contro i peccati veniali e mortali dell’Ulivo. Ma da quando rimase orfano di Ugo La Malfa, il filosofo bolognese è una specie di orfano della politica. Perché il suo conservatorismo contiene una nota radicale che si accoppiava benissimo con il radicalismo del leader repubblicano. Ancora oggi, Matteucci insegue una forma ideale di vita democratica in cui i leader sono figure esemplari, i militanti gente sicura sino in fondo delle proprie idee, con cui ci si misura duramente e senza infingimenti. Ecco, se non ci fosse il rischio di provocarne nuovamente il risentimento, si potrebbe dire che il testimone del liberalismo, il conservatore, l’aristocratico Matteucci ha una concezione della politica da cui traspare un’acuta nostalgia per i partiti di massa, per i comizi, per le piazze animate dalla passione politica: insomma, per qualcosa di autenticamente e sorprendentemente popolare.

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