gli articoli LA STAMPA/

NE’ GUERRA NE’ SECESSIONE

06.08.1998

La rivendicazione da parte dei «Lupi grigi di Torino» dell’invio del pacco bomba a Giuliano Pisapia è uno di quei segnali indecifrabili che segnano tutti gli itinerari terroristici. Per adesso l’unica cosa che si può dire con un minimo di certezza è che l’«emergenza squatter» ha cambiato radicalmente di segno. Fino a qualche giorno fa, prima della comparsa degli ordigni esplosivi, appariva come una storia di autoesclusione metropolitana. Oggi invece il gioco è cambiato: siamo di fronte a qualcosa che innesca un cortocircuito mediatico. È presto per maturare convinzioni serie. Non si sa da dove vengano effettivamente le bombe, chi le abbia confezionate e spedite, se avevano uno scopo più che dimostrativo, se esiste un’ala o una rete insurrezionale dei centri sociali. Si capisce solo che la scelta dei destinatari si iscrive in una «strategia della suggestione»: chiunque l’abbia ideata e messa in pratica ha individuato alcune figure che hanno avuto un ruolo simbolicamente forte, come il magistrato Laudi e il giornalista Genco, o altre che hanno cercato di tenere attiva una mediazione con il mondo dei centri sociali, come il consigliere regionale verde Cavaliere e il presidente della Commissione giustizia della Camera, Pisapia. Prima dei pacchi bomba, si era capito che l’emergenza-squatter non era un caso soltanto torinese. Il suicidio di Edoardo Massari e di Maria Soledad Rosas erano diventati in diverse città italiane l’oggetto di una mitologizzazione antisistema. Erano apparsi disegni e scritte sui muri in cui queste due morti venivano equiparate a un assassinio e a un martirio. Si erano create insomma molte delle condizioni necessarie per dilatare una tragica storia locale alla dimensione di un mito antagonista serpeggiante nelle aree metropolitane del nostro Paese. Per quanto rudimentali, le bombe hanno fatto rumore come se fossero esplose davvero. Di fronte alla rivendicazione, c’è anche la dissociazione di due centri sociali torinesi, che parlano di «provocazioni». In attesa di qualche spiraglio sulle responsabilità effettive, per adesso non serve a nulla immaginare complotti dei servizi, così come è prematuro giurare che in certi ambienti della marginalità sociale qualcuno abbia deciso di saltare il fosso (passando a una strategia non dissimile da quella di Unabomber, il terrorista americano autore di attentati in chiave antitecnologica). Tuttavia, come si è detto, certo è che oggi muta sensibilmente il profilo degli squatter. Erano stati descritti come protagonisti di una deliberata esclusione dalla vita sociale e istituzionale delle città, come clandestini delle metropoli, riottosi a qualsiasi forma di integrazione, e oggi li ritroviamo al centro di un processo modellato sugli schemi della comunicazione. Ciò non è privo di implicazioni. Intanto ci dice che non è appropriato illustrare i centri sociali e i circuiti antagonisti come un mondo segnato esclusivamente dalla subalternità culturale. Anche prescindendo dai pacchi bomba, la realtà degli squatter comunica. Comunica la sua marginalità, ma comunica anche la sua specificità culturale, la sua separatezza ma anche le sue mitologie, i suoi consumi, la sua musica, i suoi riti di gruppo e il suo modello di aggregazione. Proprio per queste ragioni, era sociologicamente sbagliato considerare gli squatter come un’espressione del disagio sociale classico. Non si trattava di marginalità subita, di gruppi spinti al di là della convivenza urbana dalle forze del mercato e precipitati nell’esclusione senza capacità di recupero. E dunque non c’era alcuna possibilità di trattare gli squatter nel modo in cui le istituzioni trattano le sacche urbane di emarginazione. Non servivano a niente i sussidi e i servizi sociali, cioè tutto ciò che tenta di recuperare alla vita collettiva ciò che si è disintegrato sotto pressioni irresistibili. Nello stesso tempo, detto e ribadito che tutti hanno il diritto sovrano di consegnarsi alla marginalità più estrema, a patto di non ledere le regole di legalità a cui si attiene la maggioranza dei cittadini, va anche sottolineato che la realtà degli squatter non può essere affrontata esclusivamente in termini di repressione. Puntare solo sull’attività di polizia probabilmente non otterrebbe altro risultato se non quello di accentuare di riflesso l’orgoglio della separatezza, la qualità «ideologica» dell’autoesclusione, la mitologia dell’antagonismo verso una società ostile. Occorre piuttosto tenere aperti dei flussi di comunicazione, anche parziali e precari. In modo che la scelta della separatezza, della marginalità definitiva, non diventi una scelta di contrapposizione completamente deregolata e potenzialmente violenta, sul piano individuale o collettivo, come trasgressione o come rivolta. Adesso sappiamo che alcune entità sociali hanno operato una loro secessione. Bisogna evitare che nel nome di quella secessione dichiarino una qualche guerra o guerriglia, magari condotta approfittando degli strumenti della comunicazione e della loro manipolabilità. Perché con le nuove marginalità è obbligatorio convivere: e per una convivenza appena decente è bene evitare che vengano creati nemici assoluti. Meglio una realistica diplomazia che la dichiarazione di una guerra che nessuno sa come sarebbe praticata e dove condurrebbe.

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