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NESSUN PRIVILEGIO

19.07.1997

Romano Prodi si è preoccupato di sottolineare che il disegno di legge sulla parità scolastica «non andrà a scapito» della scuola statale, a cui anzi verrà riservata un’attenzione speciale per riqualificarla. Ha fatto bene a sottolineare questo aspetto, perché la riforma tocca uno degli aspetti più delicati del rapporto fra lo Stato e la società. Il progetto del ministro Berlinguer tende a configurare un sistema dell’istruzione «integrato», in cui il settore privato si affianca allo Stato svolgendo un ruolo pubblico. Si prevedono infatti garanzie sia per gli standard dell’insegnamento sia per la libertà di accesso. E quindi non si tratta di un regalo al mercato o ai privati: in prospettiva è una ristrutturazione profonda del sistema scolastico, che una volta attuata avrà effetti rilevanti su tutta l’articolazione dell’istruzione, sulla sua qualità e sulla sua adeguatezza alle necessità di una collettività moderna. Sarebbe quindi una grossolanità considerare il progetto Berlinguer come una «pax ulivista» con le scuole cattoliche, o anche come il prezzo pagato dal ministro postcomunista ai Popolari, eredi della Dc. Nelle sue linee generali, la riforma sembra accettabile: tale perlomeno da non consentire rilievi di incostituzionalità, e soprattutto da non precostituire le condizioni di una separatezza esclusiva della scuola privata. Non sembra che ci si avvii verso un sistema scolastico composto da una serie di ghetti dorati, e neppure da luoghi di «secessione sociale», dove si sperimenta l’isolamento soddisfatto dei ceti privilegiati. In questo senso, le critiche che si sentono nel centrodestra («una presa in giro»), soprattutto nei settori più legati all’idea di una divisione netta fra pubblico e privato, di una liberalizzazione più esplicita, o comunque di un’autonomia molto più spinta delle scuole cattoliche, danno l’idea che la riforma Berlinguer è lontana dal prefigurare un Far West scolastico. Detto questo, tuttavia, sarà bene che alle parole di Prodi segua qualche fatto, perché quando si parla di scuola statale non si deve mai dimenticare che essa non produce soltanto istruzione e diplomi: produce anche beni pubblici che non sono facilmente quantificabili. La scuola statale infatti è stata, e in futuro dovrebbe continuare a essere, un’istituzione chiamata a produrre integrazione sociale e nazionale. Non è una fissazione giacobina vedere nella scuola statale un’agenzia in grado di temperare le differenze nella società e di ridurre le differenze culturali, di identità, di benessere e status. In un paese segnato da forti differenze e squilibri (quelli fra Nord e Mezzogiorno sono solo i più vistosi), la funzione della scuola pubblica ai fini della costruzione di un’identità nazionale condivisa e del raggiungimento di una matura cittadinanza democratica rimane insostituibile. C’è da sperare quindi proprio l’innescarsi di processi di concorrenza determini un miglioramento spontaneo della qualità della scuola pubblica. Ma a questo scopo occorre che tutti siano in condizione di competere alla pari, e quindi che la scuola statale non venga abbandonata a se stessa. Chi ha assistito al degrado dell’istruzione pubblica negli ultimi anni fa fatica a essere fiducioso. Ed è inquietante il pensiero che per inerzia o incuria possa svilupparsi una situazione in cui la scuola pubblica continuerà a decadere, sostituita (per chi può) da scuole di élite indifferenti alla comunità circostante. Va bene la riforma, quindi, e andrà anche meglio quando si potrà verificare il suo contenuto in termini finanziari. Ma non dimentichiamoci che l’istruzione non ha bisogno solo dei grandi progetti che fanno rumore per un giorno. C’è bisogno, ed è un bisogno ormai quasi da ultima istanza, di una politica per la scuola: costante, assidua, paziente. Perché una riforma non esaurisce il problema dell’istruzione, cioè il problema cruciale dell’Italia di fine secolo.

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