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NEVROSI DA FIORETTO

24.07.1996
SPORT
FUORI PISTA

Vinceròòò: nulla di meglio della Turandot per un fiorettista che si chiama Puccini. E anche per un ambiente come quello della scherma italiana che sembra particolarmente propenso agli acuti come alle stecche, insomma al melodramma. C’è l’eroina Bianchedi che si rompe un tendine e continua gli assalti con il piede attaccato alla caviglia con i cerotti. Ecco la nevrile Vezzali, che dopo la medaglia d’argento spiega al cronista della Rai come e perché ha perso la finale (si è trovata in svantaggio e ha dovuto attaccare, lei abituata a una scherma di rimessa): quello non capisce e ridomanda, e lei glielo rispiega, pari pari, così impara. Ed ecco anche l’animosa Trillini, trionfatrice a Barcellona senza una gamba e adesso sconfitta in semifinale mentre era in cospicuo vantaggio, forse per troppa sicurezza, forse per improvvisa vertigine aurea. Per sostituire l’invalida Bianchedi andrà in pedana la collerica Bortolozzi, che aveva reagito alla collocazione fra le riserve dicendo che se l’avesse saputo sarebbe andata al mare con il marito, «magari per fare un figlio», perché ognuno si consola con quel che passa il convento. Sembra un ambiente nevrotico, quello della scherma azzurra, in parte perché fortemente endogamico (si fidanzano molto fra di loro) ma soprattutto per la natura della loro disciplina. Di per sé infatti la scherma sarebbe qualcosa di estremamente coinvolgente: grande tensione agonistica, rimonte clamorose, esiti drammatici. Solo che il comune telespettatore non vede assolutamente nulla. Sembra la partita a tennis di Blow up. Tutto, stoccate e parate, avviene in una realtà subliminale. Le palline rosse e verdi che appaiono alle estremità del teleschermo sono in genere decorative, perché nemmeno l’elettronica, non si dice il giudice di gara, riesce a districare in modo convincente i casi complessi, cioè la normalità. Calati dentro questa dimensione perfettamente metafisica, schermidori e schermitrici sono entità dechirichiane, che ritornano in questo mondo solo dopo ogni assalto: e tornano fra noi con urla e gestacci, crollando in ginocchio disperati o esaltati per la stoccata decisiva. Ci si aspetta sempre che tolta la maschera ci sia il nulla, come per il Cavaliere inesistente di Calvino, e che il corpo sia rimasto in un irraggiungibile paradiso ariostesco, popolato solo di spadisti, di fiorettisti, di sciabolatori. Dove c’è un arbitro, dai riflessi divini, che riesce a individuare sempre e senza errori chi ha toccato per primo.

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