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ORA BISOGNA IMPARARE A PERDERE

19.05.1997

Chi pensa che la Commissione bicamerale sia un santuario partitocratico, da cui non potrà venire altro che un prodotto istituzionale compromissorio, dovrebbe guardare con attenzione l’ultimo sondaggio realizzato da Explorer per La stampa, una parte del quale è dedicata proprio all’atteggiamento degli italiani verso le riforme istituzionali ed elettorali. Perché a esaminare i risultati sembrerebbe che la tendenza al compromesso, la propensione a non decidere o a non attuare coerentemente ciò che è stato deciso, siano atteggiamenti diffusi fra i cittadini, oltre che fra i partiti. L’interpretazione dei dati del sondaggio richiede cautela, data la complessità degli argomenti trattati. Emergono tuttavia almeno due aspetti con l’aria di essere significativi: da un lato la notevole spaccatura sulla scelta del sistema elettorale per le elezioni politiche, se è vero che quasi un terzo degli intervistati si dichiara favorevole all’attuale sistema misto, cioè il famigerato «Mattarellum», quello che gli esperti ritengono in larga misura responsabile delle distorsioni e della frammentazione dell’attuale sistema politico; dall’altro lato si stagliano le idee piuttosto confuse che affiorano nei confronti dell’elezione diretta del capo del governo (presidente della Repubblica o premier che sia). Gli italiani rappresentati nel campione intervistato, infatti, svolgono questo ragionamento biforcuto: si dichiarano plebiscitariamente favorevoli all’elezione diretta, ma subito dopo si dividono sull’idea di attribuire maggiori poteri al presidente o al premier eletto con i loro voti. Vogliono eleggere il capo del governo, conferendogli una legittimazione più alta di quella che gli assicurerebbe la designazione dei partiti, ma subito dopo si preoccupano di negargli ogni potere aggiuntivo. Presidenzialismo sì, ma debole. Questo risultato appare talmente bizzarro, quasi ai limiti della schizofrenia politica, da assurgere automaticamente al livello di sintomo. Sintomo della complessità politica del nostro Paese e sintomo del fatto che parlare di formule istituzionali risolutive comporta sempre un rischio di astrattezza. Evidentemente, nel mondo reale, a differenza che nei paradisi istituzionali, i cittadini interpellati ragionano in base alle loro conoscenze e all’esperienza maturata. Quindi hanno cominciato ad apprezzare le «prove di maggioritario» compiute finora, e anche il primo strumento di elezione diretta, quello del sindaco. Ma elezione diretta e maggioritario sono percepiti come un valore positivo fin tanto che rimangono le leve della competizione, l’insieme di condizioni che consentono un confronto altamente concorrenziale fra candidati e schieramenti: cioè piacciono prima delle elezioni, proprio perché spettacolarizzano la gara, alzano la posta politica in gioco, introducono aspetti quasi sportivi nello scontro politico. Guardando invece a ciò che può accadere dopo il voto, quando un vincitore c’è già, tutte le caratteristiche del maggioritario e dell’elezione diretta in precedenza considerate positive assumono una tonalità di rischio: la stabilità appare frustrante per i perdenti, le iniziative politiche attuate dal nuovo esecutivo non sono molto influenzabili dall’opposizione, e dunque la realizzazione dei programmi di chi ha vinto sfugge tendenzialmente al dibattito politico. Sembra dunque di poter trarre da questi dati un insegnamento: in politica gli italiani hanno imparato a giocare per vincere, ma non hanno ancora imparato a perdere. Questo riguarda certamente i partiti, come si è visto durante l’anno di governo di Romano Prodi, dodici mesi fittamente popolati dall’ipotesi di governi di grande coalizione, di larghe intese, di compromessi e ribaltini virtuali che si sarebbero rivelati come la negazione più manifesta dalla cosiddetta «logica del maggioritario»; ma riguarda evidentemente anche i cittadini-elettori, che paiono conservare nel proprio corredo genetico-politico la sfiducia preventiva verso modelli «forti» di governo. Se ne trae forse qualche insegnamento. In primo luogo che i programmi di riforme più incisive sono patrimonio di avanguardie politiche numericamente limitate, mentre dentro l’opinione pubblica permangono motivi di diffidenza verso ciò che viene percepito come una forma di radicalismo istituzionale. E in secondo luogo che probabilmente non ci sono luoghi ulteriori di riforma rispetto alla Bicamerale, con il coinvolgimento diretto dei cittadini: se la Commissione è troppo prudente e destinata a mediazioni insoddisfacenti, non si direbbe che il popolo, per lo meno il popolo dei sondaggi, sia molto più coraggioso. Ci si potrebbe dichiarare insoddisfatti del popolo. Ma mentre la Bicamerale è uno strumento a scadenza definita, si dà il caso che il popolo, malgrado le riforme più audaci, continuerà a esistere anche dopo il 30 giugno.

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