Si legge il dialogo tra Luciano Violante e Gian Enrico Rusconi sulla «cultura repubblicana», pubblicato l’altro ieri dalla Stampa e ci si dice: qui c’è qualcosa di noi, della nostra storia, della nostra esperienza politica. Qualcosa di importante e profondo. Già, ma cosa? Tutto quello che dice Violante è vero: «il fascismo prima e la lunga guerra civile fredda interna poi hanno bloccato il processo di costruzione di un’identità nazionale democratica cominciata con il Risorgimento». È detto in modo eccellente. Poi una dissolvenza, e infine la diagnosi. Sempre Violante, sollecitato e accompagnato da Rusconi come un maieuta: «L’antifascismo come l’anticomunismo oggi sono percepiti dalle giovani generazioni come eventi del passato». E allora qui si comincia a capire qualcosa di più. Siamo ancora e sempre in piena elaborazione del lutto. Il lutto infinito della sinistra. Un’elaborazione che è qualcosa di difficile, di complicato, di straniante. perché implica la rinuncia definitiva a quelle categorie, per l’appunto l’antifascismo e l’anticomunismo, che hanno funzionato come marchio di fabbrica di un’appartenenza. Inutile sottolineare ancora una volta che l’antifascismo ha contribuito in una certa misura alla legittimazione del Pci. Violante ricorda infatti che «il comunismo italiano è stato diverso da quello sovietico»: benissimo, ma allora la «guerra civile fredda interna», di cui parla il presidente della Camera, perché c’è stata? Chi l’ha dichiarata, e contro chi? Dico questo non per resuscitare polemiche piuttosto consumate, ma semplicemente per sottolineare che così come l’antifascismo non era una prova a priori di democrazia e di cultura liberale, così pure l’anticomunismo non costituiva un attentato alla libertà. Ma così siamo ancora alle premesse delle premesse. Perché il senso autentico del discorso di Violante è più o meno questo: è vero, caro Rusconi, siamo rimasti orfani, non abbiamo più certezze. Insomma, sono cadute le ideologie, come si dice nel dialetto culturale in voga da qualche anno, e non sappiamo bene come sostituirle. In modo più rude, bisognerebbe dire come contrappunto che non sono crollate le ideologie, ma è crollata l’ideologia, cioè il mito della pianificazione sociale ed economica socialista. L’Ottantanove ha fatto fuori il comunismo, non un generico complesso novecentesco di ideologie varie. È per questo che la riflessione di Rusconi, esposta in quel denso libretto pubblicato da poco che è Patria e repubblica, risulta così suggestiva: perché la sinistra uscita dalla caduta del Muro rischia di precipitare in un abisso dalle pareti senza appigli. Dove si fermerà? A che cosa potrà aggrapparsi? Oltretutto, in mezzo al mare, risuona il canto di molte sirene. Si sente Tony Blair parlare di «centro radicale», che è un modo elegante per dipingere con pennellate di modernità culturale postlaborista l’adozione di moduli socioeconomici neoliberisti. La sinistra «liberale» è così indifesa rispetto alla concorrenza di destra da dover accettare di giocare sul terreno dell’avversario, talora con un atteggiamento corrivo verso il common sense del mercato e della concorrenza. E quindi dov’è un punto fermo, un ubi consistam, la linea oltre la quale non si può andare senza perdere la faccia o l’anima? È qui che nasce la suggestione del patriottismo repubblicano. Formula efficace, evocativa, capace di fare risuonare qualche corda emozionante. Patriottismo delle regole, patriottismo della Costituzione, secondo la definizione di Habermas. Forse anche con un contenuto intrinsecamente dinamico sul piano collettivo, come intende Quentin Skinner, che vede nella cittadinanza repubblicana un passo in più, o un passo a lato, rispetto alla cittadinanza liberale, in quanto pone deliberatamente l’accento sul perseguimento e la difesa dell’uguaglianza, si oppone agli eccessi di squilibrio di potere che possono manifestarsi nella società liberale. Intendiamoci: è già uno sforzo ammirevole cercare di praticare una pedagogia nazionale fondata sulle regole. Così come sarebbe utile introdurre una quota di pathos nella democrazia, riuscire cioè a suscitare le passioni dei cittadini per la pratica del confronto democratico. Perché altrimenti, esaurite le ideologie e le utopie, svuotate le speranze e le passioni, resterebbe solo la visione desencantada dello scontro degli interessi. Da cui nasce l’ultima, malamente ironica, domanda: che fare?, assistere al conflitto fra gli interessi preoccupandosi di assicurare un contesto che li regoli? Ma certamente. Tuttavia ci vorrebbe anche qualche ragionamento un pochino meno neutro per dire come si lavora dentro il cerchio delle norme e delle convenzioni. Perché le speranze senza le regole sono certamente cieche; ma le regole senza qualche speranza rischiano di essere disperantemente vuote.
12.04.1997
SOCIETA' E CULTURA
DISCUSSIONE. Dopo il dialogo Rusconi - Violante sulla "cultura repubblicana"