gli articoli LA STAMPA/

PIACERE, IL PARADISO NASCOSTO

20.05.1997
SOCIETA' E CULTURA
Anche i cattolici lo rivalutano, ma il problema resta: dove si annida nel mondo moderno?

Chi ha avuto l’occasione di leggere su Famiglia cristiana l’elogio del piacere stilato dal domenicano Giordano Muraro, deve avere tirato un sospiro di sollievo: ma allora, se ne parlano i teologi, il piacere esiste. Cioè esiste ancora. Certo, quelli citati dal teologo del settimanale cattolico più diffuso sono piaceri semplici, elementari («il piacere del mangiare, del bere, del sesso, del danzare, del giocare»), ma è già una consolazione osservare che ci sono maestri d’anime così ottimisti sull’esistenza del piacere. Padre Muraro infatti ha spiegato che ci sono «diversi modi di leggere il Crocefisso, c’è una lettura straziata e macabra e una piena di fiducia e amore» e che «il piacere è il riposo della vita, di per sé è un fatto positivo, solo l’abuso può avere degli effetti negativi». Insomma, purché non si riveli il fine ultimo della vita, purché non si disperda in quell’«edonismo» che insieme al marxismo il severo cardinale di Bologna Giacomo Biffi non cessa di esorcizzare con i suoi moniti, il piacere è qualcosa a potenziale positivo, «una tappa verso la beatitudine». Perfino papa Wojtyla, che è rimasto uno degli ultimi protagonisti del secolo a manifestare un pensiero critico verso gli eccessi del capitalismo consumista, non si ritrae dal piacere di un tocco di classe in più, se è vero che a Parigi l’estate prossima, alle Giornate mondiali della gioventù, indosserà una linea di paramenti sacri disegnati dallo stilista francese Jean-Charles de Castelbajac. Già, ma prima di benedire il piacere bisognerebbe sapere dove si trova. A dar retta alle idee di piacevole moderazione del padre domenicano di Famiglia cristiana dovrebbe stare dalle parti di una cena in pizzeria, seguita da un fervido abbraccio coniugale, eventualmente preceduto da una scappata in un dancing. Tutto molto familiare, regolare, procedurale. Ma se le cose stessero davvero così, sarebbero troppo semplici. Nelle ore canoniche le pizzerie sono sempre piene, i dancing sono un ricordo di trent’anni fa, ed entrare per un quarto d’ora nei suoni e nelle luci di una discoteca può avere l’effetto di illanguidire qualsiasi uzzolo matrimoniale. I piaceri semplici stanno diventando sempre più irraggiungibili: il miraggio di una mangiata di pesce al mare si dissolve nella coda del weekend in autostrada, la gita fuori porta si risolve in un’orgia di automobili sulla via del ritorno: in questi casi solo pochi privilegiati, come lo storico e opinionista del Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia, possono rivalersi e trasformare un fastidio in un piacere di livello più elevato, tramutando un caotico fine settimana sulla penisola sorrentina (caotico e difficoltoso per via di «un blocco permanente della circolazione stradale, in pratica in ogni momento della giornata») in un vibrante editoriale sul degrado ambientale e paesaggistico italiano. Ma si capisce subito che i piaceri di questo tipo non sono per tutti. L’italiano medio, che ha già rinunciato alle illusioni, e perciò non crede più né alle piccole soddisfazioni legate alle tre settimane di ferie in agosto né ai prodigi della riforma elettorale, è costretto a cercare faticosamente gratificazioni vicarie. Mangiare? I pranzi di lavoro hanno neutralizzato il piacere della buona tavola confondendo piatti e portate dentro l’illustrazione di strategie aziendali e piani di ristrutturazione, per cui si continua desolatamente a ingrassare senza nemmeno avere gustato ciò che si è mangiato e bevuto. Sesso? E quando mai, le attività erotiche richiedono tempo, impegno, corteggiamenti, carinerie impegnative. Non perché eros e amore coincidano necessariamente, la linea è quella dettata dall’avvocato Agnelli: dimostrarsi innamorati in pubblico è roba da ballerini di tango. Ma anche nel rispetto della più adeguata sobrietà imprenditoriale, nessun leghista bossiano di stretta osservanza, piccolo industriale brianzolo o giù di lì, possibile obiettore fiscale ma intanto forte lavoratore in proprio, potrebbe abbandonare la fabbrichètta per l’amichètta, sarebbe una defezione, un tradimento; nessun piccolo imprenditore di area berlusconiana si dovrebbe consentire fughe e appuntamenti galanti mentre i clienti aspettano e i fornitori lavorano e i venditori vendono: se lo fa, sono tremori, sudori freddi, che non costituiscono il viatico migliore per un pomeriggio di piacere. Al massimo, ecco, è lecito approfittare di qualche bella radunata tipo Pontida, o ancora meglio una oceanica marcia antitasse primaverile, dove il primo tepore, le camicie e le ascelle all’aria, l’eccitazione suscitata dal poter gridare slogan contro il governo vampiro ed esibire cartelli contro le maledette sinistre succhiasangue, insomma, tutta questa fusione calda può favorire l’allentamento delle inibizioni e quindi provocare qualche estemporaneo passaggio dalla piazza alle due piazze. Ma non deve sfuggire che questi sono piaceri di destra: a sinistra infatti gli scioperi e le manifestazioni sociali hanno ancora tutta l’aria di essere assai puritani: perché si mettono in piazza argomenti eroticamente scoraggianti come il lavoro e la pensione, ma anche perché i delegati sindacali e le rappresentanze operaie vengono in pullman e sui treni speciali, niente agghindamenti da giorno di festa e soprattutto niente alberghetti di periferia o compiacenti accomodamenti prenotati fuori porta e fuori dalla vista di Cofferati. Dove cercare il piacere, allora? Dove si annida oggi? Inutile cercarlo nella politica, dato che nei tempi della grande disinflazione la politica è stata fagocitata dall’economia, scienza triste per eccellenza. Chiaro che, come dice il vecchio adagio, «cumannari è megghiu ca futtiri», ma oggi il potere dovrebbe essere esercitato promettendo e mantenendo tagli al reddito, che si risolve in un esercizio piuttosto sadico: e il sadismo è un’attività che provoca eventualmente piacere se la si pratica su un corpo individuale, non su un corpo elettorale. E che ne è stato di quel piacere che doveva essere iscritto nella logica del maggioritario e nello schema della maggioranza che governa e dell’opposizione che controlla? È bastato poco infatti, e ci si è accorti che queste monogamie politiche sono noiosissime: all’opposizione ci si annoia e si fa di tutto per trovare un biglietto per entrare nella maggioranza; nella maggioranza l’unico che si diverte davvero è quello che riesce a imporre i suoi veti, «niente tagli né tasse», e via rifondando. Di questi tempi il piacere è piuttosto un fenomeno interstiziale, da ricercare in preziose e nascoste isole dell’esistenza. Non nel lavoro in sé, ad esempio, perché il lavoro è diventato una fonte continua di preoccupazioni, di ansie, di angosce. Circolano parole che sono diventate tristemente d’uso comune: il downsizing, cioè le ristrutturazioni basate sui tagli all’occupazione, e l’outsourcing, la dislocazione all’esterno di funzioni aziendali: a cui si risponde se è il caso con il downshifting, ristrutturando verso il basso le proprie aspettative e i propri comportamenti, alla ricerca di una qualità della vita che supplisca al calo della quantità di lavoro. Insomma, si fa di necessità virtù, altro che piacere. Perché in effetti tutta la sfera lavorativa è entrata in una dimensione di precarietà permanente, di nevrosi che si riacutizza ogni giorno: il mercato e la concorrenza fanno scottare la sedia a tutti, e a ogni livello. In queste condizioni, trovare una forma di piacere nella professione è un’impresa disperata. Forse si può trovare un indizio di piacere non tanto nel lavoro in sé, che è continuamente sottoposto allo stress della prestazione, all’incertezza dei risultati, alla indeterminatezza se non all’improbabilità dei nuovi obiettivi strategici, bensì in ciò che sta al contorno dell’attività professionale. Perché il lavoro consente di viaggiare, essere in loco, di presenziare, e la presenza ormai sembrerebbe l’ultimo dovere/piacere residuo. Si presenzia a Montecarlo, infilandosi nella conferenza stampa di Michael Schumacher, ma si presenzia anche più modestamente tenendo il cellulare sempre acceso per poter avere mezzo’ora prima degli altri l’ultimo pettegolezzo intraprofessionale, partecipando al concerto promosso per l’anniversario della Cassa rurale di Quartirolo (anche senza un completo griffato Castelbajac), si presenzia sotto le luci della tv e l’occhio magico delle telecamere, che sono meglio di qualsiasi lampada abbronzante. Il piacere della presenza, del farsi vedere, dell’essere ripresi: chissà che ne pensa Famiglia cristiana. Perché in questo tipo di piacere non ci sono mezze misure, o ci si nega sempre o si è sempre dappertutto, anche ai Telegatti. Il piacere della presenza riunisce tutti i piaceri postmoderni, il piacere della moda, dell’immagine, del look, dell’apparire contro l’essere, dell’esserci contro chi non c’è: gli assenti hanno davvero sempre torto. Piacere totale, piacere quintessenziale, il piacere della presenza richiede un impegno e una dedizione totali: altro che una tappa verso la beatitudine, è la beatitudine in sé. Peccato, potrebbe dire il teologo, che l’ultimo dei piaceri sia un piacere in cui i moderati non godono.

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