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RAGIONEVOLE DUBBIO

24.01.1997

Quando c’è un ragionevole dubbio non si condanna nessuno: è un principio di civiltà giuridica. E la vicenda giudiziaria di Sofri, Pietrostefani e Bompressi è talmente costellata di incertezze, passi falsi, annullamenti, sentenze autocontraddittorie, che riesce impossibile pensare che con la conferma della condanna a ventidue anni di carcere per l’omicidio del commissario Calabresi si sia fatta giustizia. Si è semplicemente esaurito, per automatismo, per moto d’inerzia, un iter giudiziario, è giunta alla sua fisiologica conclusione una vicenda processuale che sembra riassumere tutte le distorsioni della giustizia italiana. Che questo ragionevole dubbio esista sembra arduo negarlo. La logica della condanna è tutta fondata sul principio che il pentito Marino, l’accusatore di Sofri, non aveva alcun interesse ad autoaccusarsi e ad accusare i suoi vecchi compagni. Le contraddizioni nelle sue ricostruzioni, gli errori fattuali, le imprecisioni, sono stati considerati delle appendici insignificanti a una verità ritenuta intrinsecamente solida, non scalfibile dalle verifiche degli testimoni. In secondo luogo, c’è il dubbio che nei confronti di Sofri sia stata messa in atto una volontà persecutoria: dubbio che viene reso esplicito dal fatto che la procura di Brescia indaga su due nodi di questa vicenda giudiziaria, che potrebbero rivelare una sorta di accanimento contro i vecchi esponenti di Lotta continua: una sentenza di assoluzione potrebbe essere stata motivata dal giudice in modo autodistruttivo, allo scopo di provocarne l’annullamento; pressioni sarebbero state esercitate sui giurati dell’ultimo processo per condurre a un verdetto di condanna. Non si capisce quindi per quale motivo una sentenza così grave e simbolicamente importante, che scrive o riscrive la storia di un periodo drammatico della vicenda nazionale, e che si abbatte con una violenza infinita sulle esistenze di tre persone a venticinque anni di distanza dal crimine loro contestato, possa essere stata emessa mentre erano pendenti indagini su gradi precedenti di giudizio. Possibile che la lentissima, fatiscente, inefficiente giustizia italiana dovesse dare una tardiva dimostrazione di velocità, di tempi da rispettare in modo ferreo, proprio mentre dovevano essere valutati episodi e atteggiamenti tutt’altro che insignificanti, almeno a prima vista, sulla credibilità dei processi precedenti? Detto questo, si apre un altro fronte. Perché ancora una volta, come è sempre è accaduto per le vicende processuali dell’ex leader di Lotta continua, è scattata la valutazione politica sulla sentenza. E qui, ancora una volta, si è mossa praticamente all’unisono la sinistra (a cui si è aggiunta la destra ultraliberale). Con un atteggiamento apparentemente lineare, basato per l’appunto sulla teoria del ragionevole dubbio sulla colpevolezza, ma che lascia trasparire invece, nei toni e nei modi, il tentativo di convincere dell’inesistenza di dubbi sull’innocenza. A giudizio di chi scrive, uno degli errori peggiori, in questa storia, sarebbe quello di cercare di sovrapporre al giudizio di colpevolezza raggiunto dalla giustizia formale un giudizio di innocenza trasmesso attraverso una giustizia sostanziale. L’eventuale errore dei tribunali e dei giudici non si può correggere con l’evocazione di una giustizia «giusta», una giustizia politica. Uno spirito liberale rifiuta sul caso Sofri le certezze di sinistra esattamente come rifiuta le certezze di destra. Quindi coltiva il dubbio che sia innocente esattamente come riflette sul fatto che poteva essere colpevole. Ieri due esponenti di Alleanza nazionale, Maurizio Gasparri e Francesco Storace, hanno parlato di «condanna esemplare», che inchioda i nemici politici di ieri alle loro responsabilità storiche. Se ci si divide su una sentenza in base alla propria ispirazione politica, questa è lotta di parte, è una manifestazione di tifo calcistico, non è razionalità giuridica né intelligenza storica. Con le certezze, e soprattutto con le certezze opposte, non si fa giustizia. Dal pasticcio giudiziario e storico che si tramuta in un incubo e si abbatte sul destino personale di Sofri, Pietrostefani e Bompressi, si può uscire soltanto usando la chiave che apre l’istituzione giudiziaria, approfondendo, a partire dalle indagini di Brescia, quel ragionevole dubbio che getta la sua ombra sull’ultimo verdetto.

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