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ROMANO MOSTRA I MUSCOLI CON L’ARCO DI ROBIN HOOD

30.06.1996
INTERNO
IL CLIMA "ECCITANTE" DEGLI INCONTRI AL VERTICE CON BILL CLINTON E HELMUT KOHL HA CAMBIATO MARCIA E LESSICO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Dev’essere il clima eccitante degli incontri al vertice, quell’atmosfera cameratesca in cui si discute con Bill e con Helmut, con John e con Georges: era già successo a Silvio Berlusconi, entusiasmato dal G7 di Napoli fino da prospettare ipotesi notturne fin troppo complici e comunque assai poco protocollari al Clinton che contemplava incantato la luna dalla reggia di Caserta. Sta di fatto che a Lione anche Romano Prodi si è fatto prendere dall’aria evidentemente frizzantina del summit e all’improvviso ha cambiato marcia, lessico, atteggiamento. E dunque ecco a voi il Prodi pugnace. In parte sarà stata la reazione al trauma causato dal siluro sganciato venerdì dal commissario europeo Mario Monti, il quale aveva segnalato che il dpef, il documento di programmazione economica triennale presentato dal governo, costituisce l’ammissione effettiva, la prova provata di non poter centrare il bersaglio della moneta unica alla data d’avvio. Insomma, un’abdicazione. L’irritazione manifestata dal presidente del consiglio è apparsa così acuta da far pensare che le critiche di Monti siano state percepite da lui non tanto come valutazioni di macroeconomia, un risultato della triste scienza, bensì come il dito nella piaga infilato, da chi?, no, non da un’alta personalità istituzionale europea, e neanche da un accademico pari grado, ma piuttosto da un concorrente pericoloso, chissà, forse il futuro candidato di un Ulivo di centrodestra. Ma soprattutto ha colpito il tono usato da un Prodi «su tutte le furie». Perché a suo giudizio l’irriguardoso Monti «ha ottenuto il singolare risultato di mettersi in contrasto con il presidente dell’Unione europea, il quale ha tessuto le lodi del dpef, e con il governo del suo paese». Berlusconi, lo sappiamo, sarebbe stato più immediato, più icastico: «C’è chi rema contro», ma la sostanza del Professore non riesce a essere troppo diversa dalla forma del Cavaliere. Ieri, poi, il Prodi furioso ha indossato all’improvviso i panni e le parole di un uomo politico che prova (qualcuno dirà finalmente) a costruirsi un carisma, mitologizzando il proprio ruolo. Se Berlusconi si era dato l’effigie di Masaniello, il ribelle sfortunato, Prodi si è sbarazzato di quella di Balanzone, appiccicatagli sul volto gli avversari, e ha scelto quella anti-thatcheriana di Robin Hood: bandito a tutti gli effetti, ancorché buonista. Alle critiche di Sergio Cofferati e della Cgil, ha risposto con puntiglio che invece alcuni esperti del sindacato hanno felicemente riscontrato che la manovra non colpisce i redditi più bassi: «Per la prima volta Robin Hood agisce nella giusta direzione». Già, ma è tutto da vedere che il compito di un governo, per quanto di centrosinistra, sia quello di rubare ai ricchi per dare ai poveri. I precetti socialdemocratici, come insegnava Olof Palme, prevedono la tosatura dell’agnello, non il furto di una parte del gregge. Un bon mot poco riuscito? Può darsi. Eppure sembra indubitabile che l’aria di Lione abbia allargato più del solito i polmoni politici del premier. Prodi ha preso fiato in quella piacevolissima brezzolina gallica e si è sentito davvero ringalluzzire. Ha abbandonato la prima persona plurale in cui si era prudentemente rinchiuso durante la campagna elettorale, ed è tornato con un blitz alla prima singolare. Il «noi» precedente il voto era un pronome significativo, un rametto dell’Ulivo, il sintomo di una coalizione. Mentre l’«io» di ieri è quello di un nocchiero che assume su di sé, sulle proprie capacità di timoniere, le sorti di una nazione: «Ho intenzione di portare in Europa un paese vitale, non un paese morto». Talvolta i mutamenti di stile testimoniano di una metamorfosi del profilo politico. E quindi è possibile che Prodi, consapevolmente o no, stia reagendo alle prime difficoltà del suo governo cercando nel linguaggio e nei toni un contatto più diretto con i cittadini. Si può leggere in questo modo la decisa rivendicazione secondo cui il governo «non può dipendere dalle dichiarazioni né della Confindustria né dei sindacati»: ci fosse stato nei pressi un Tatarella ulivista avrebbe potuto utilmente aggiungere all’elenco dei poteri forti: né della Banca d’Italia (tiepido, fra l’altro, il governatore), né della Fiat, né della Corte costituzionale. Insomma, sabato 29 giugno, in terra francese, potrebbe essere nato un Prodi assai meno professorale e molto più capo politico. Che mostra i muscoli anziché illustrare le teorie. Che dell’Italia dice: «un Paese così non può contare nulla», e sostiene la continuità di governo (il suo) è necessaria per aumentare «il peso della nostra politica nel mondo». Guarda caso: scoppiano le prime difficoltà dentro la coalizione di centrosinistra, Rifondazione comunista e i Verdi si oppongono al dpef minacciando di farlo a pezzi in parlamento, i sindacati si dividono e si accapigliano, e il capo del governo sente il bisogno di offrirsi agli italiani come l’uomo portatore di una responsabilità storica, attribuitagli dagli elettori con il loro voto. Troppo poco e troppo presto per segnalare un rischio populista. Ma già abbastanza invece per indicare un principio di berlusconizzazione: e quindi per supplicare il presidente Prodi, quando verrà davvero quello che lui definì «il tempo delle scelte», di evitarci il «lasciateci lavorare» dei leader troppo consapevoli della propria missione.

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