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SE RITORNA IL TEMPO DEI PARTITI

24.06.1996
TRA POLO E ULIVO

Gli animi semplici potrebbero giudicare curioso tutto l’agitarsi che si avverte nel sistema politico, dentro gli schieramenti e nei partiti. È troppo presto, naturalmente, per formulare giudizi fondati sul grado di consolidamento dello schema bipolare e per individuare eventuali ragioni di insoddisfazione all’interno delle due coalizioni principali. Che esista un «disagio del bipolarismo» è in larga misura fisiologico, dato che la struttura delle alleanze attuali è il risultato di una costruzione artificiale, condotta allo scopo di combinare nel modo meno incoerente possibile ragioni storico-politiche di fondo e interessi politici assolutamente contingenti. Si tratta di capire quindi se le increspature che stanno manifestandosi nella superficie della politica italiana sono il risultato naturale di piccole scosse di assestamento, oppure se sono il sintomo di tensioni che la formula politica attuale nel lungo termine non riuscirà a comprimere. Detto in altre parole, occorrerà verificare se il confine fra la destra e la sinistra è un confine stabilizzato oppure no. Perché se questo confine è un crinale che non lascia possibilità, se non estreme, di attraversamento da un versante all’altro, sarà certo di qualche interesse analizzare come il Polo e l’Ulivo si riorganizzeranno, ognuno al suo interno. Ma se il confine è una traccia indistinta, che può permettere osmosi da un’area all’altra, allora l’attuale formicolio potrebbe presto diventare una turbolenza, e rimettere in discussione tutto il processo politico. Insomma, la prima domanda è se il Polo e l’Ulivo sono fenomeni politici di lunga durata o se invece sono figurazioni transitorie del cambiamento politico, e per ora non ci sono risposte precise. Allorché De Mita rilancia la necessità di rifare la dc, almeno su un aspetto è difficile dargli torto: perché nel nostro paese il bipartitismo, ancorché molto imperfetto, c’era già, ed era quello fondato su dc e pci. Era sterilizzato dal metodo proporzionale e dai comportamenti negoziali dei partiti, ma in quanto schema politico era visibile, ideologicamente motivato, e anche profondamento assimilato dal corpo elettorale. E dunque, se non ci fosse stata la frattura apertasi nel 1992 con la scoperta di Tangentopoli, e la grande sconfitta del «terzo polo» di Martinazzoli alle prime elezioni bipolari, quelle del 27 marzo 1994, niente avrebbe vietato che il bipolarismo venturo fosse basato da un lato sugli eredi della dc (e i loro storici alleati) e dall’altro sugli eredi del pci. Nella realtà, invece, la dc è esplosa, disintegrandosi in vari spezzoni, ed è nata un’articolazione di alleanze contrapposte: che nell’Ulivo risponde a una logica storicamente conosciuta, dato che sulla scia di una vocazione antica ha indotto la sinistra dc all’alleanza con gli ex comunisti; e che sull’altro lato ha dato luogo a una destra frammentaria, in parte autarchica, in parte liberale, in parte cattolico-moderata. Di solito è la storia a produrre gli schieramenti politici. Da noi è stata la cronaca. Ma ci sono due leader che hanno interesse a considerare definitivo il formato delle alleanze attuali. Uno è naturalmente Silvio Berlusconi, inventore del Polo e sdoganatore dei postfascisti, che ha bisogno di coprire la propria debolezza di leadership con la tenuta della coalizione; l’altro è Massimo D’Alema, che è riuscito a mantenere intatta la forza del suo partito e ad avere sul centro un raggruppamento numericamente subalterno. D’Alema non ha nessuna voglia di disperdere il pds nel generico partito democratico che piace a Veltroni. Anzi, ha intenzione di «laburistizzarlo» (è significativa in questo senso l’offerta della presidenza del partito a Giuliano Amato), facendone un classico partito europeo di sinistra, capace di offrire una casa comune anche ai laico-socialisti, e confermando senza confusioni di ruoli l’alleanza con la ristretta area dei popolari. Per questo D’Alema ha fatto capire ripetutamente di non avere nessun interesse alla caduta di Berlusconi e alla conseguente dispersione di Forza Italia. Anche il segretario pidiessino pensa che il bipolarismo esiste in quanto esiste il Cavaliere. Senza Berlusconi, il «disagio del bipolarismo» lascerebbe il campo alla piena turbolenza, gli scricchiolii e le increspature si trasformerebbero in una situazione tellurica, capace di sconvolgere tutto il panorama politico. Si aprirebbe un vuoto nel cuore del sistema politico, tale da attrarre automaticamente risorse ed energie politiche oggi divise. Ma prima di pensare al grande terremoto, si può anche immaginare che assisteremo a piccoli smottamenti, capaci di aprire brecce nello steccato fra gli schieramenti (qualche voto al governo da parte dei centristi del Polo, ad esempio). E, a destra, a prevedibili tentativi di spostare l’equilibrio politico del Polo al centro, con la simmetrica marginalizzazione di an. Fino al 21 aprile la politica italiana si era imperniata sulle alleanze; ora sembra tornato il tempo dei partiti. Visto che quasi nessuno, tranne la Lega o Rifondazione comunista, osa ancora proporre il ritorno alla proporzionale, l’unica conclusione possibile è che stiamo assistendo oggi a un’esercitazione, se non già a una battaglia, sul bipolarismo: fra chi accetta cioè il bipolarismo reale, sancito dai risultati elettorali, e chi pensa a un bipolarismo possibile, dai contorni ancora sfumati, molto simile tuttavia alla storica alternativa dc/pci. Poiché la politica è la scienza del possibile, non c’è da scommettere una lira sulla possibilità che partiti e cespugli si accontenteranno della realtà così com’è.

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