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STREMATI ALLA META

27.03.1997

Non sarà la mitologica manovra «senza tagli e senza tasse» di Fausto Bertinotti, ma quella varata nel vertice di maggioranza ci assomiglia a tal punto che il segretario di Rifondazione comunista può a buon diritto reclamare la corona del trionfatore. D’altronde, lo si era capito da qualche giorno, sentendo Bertinotti parlare nuovamente, con provocatorietà sempre più soddisfatta, di tasse patrimoniali, tributi sul capitale circolante, riduzioni dell’orario di lavoro a parità di salario. Ma riassumere il risultato del vertice di ieri guardando soltanto Bertinotti e la sua felicità di domatore che fa ballare il governo sarebbe un esercizio mediocre. Conviene invece cercare di comprendere che cosa significa per il governo l’avere girato la boa della manovra correttiva e osservare in quali condizioni è giunto a doppiare questo appuntamento così problematico. È superfluo sottolineare che il governo Prodi è giunto stremato alla definizione della manovra di primavera. La stessa configurazione dell’intervento correttivo, che il Polo ha criticato come «cosmesi contabile», è lo specchio della fragilità della maggioranza, così come della sua oggettiva difficoltà di operare sul corpo di un’economia assai debole e provata. L’unica parziale scusante per l’esecutivo sarebbe la drammatica urgenza con cui si è trovato a operare, prima con la finanziaria e poi con la manovrina, se non fosse che questa urgenza, che alla fine è diventata affanno, è stata acuita proprio dai ritardi, tutti dettati dalla politica e dalle sue convenienze, con cui il governo ha assunto le sue decisioni in politica economica. Ma si potrebbe superare la ripulsa generata dall’impianto della manovra, e quindi esprimere anche la debita comprensione per un uomo come Carlo Azeglio Ciampi, costretto a legittimare con la sua autorità e il suo prestigio gli imbellettamenti, gli anticipi e i rinvii di spesa, se si avesse la certezza che questo è davvero il passo decisivo sulla strada di Maastricht: se così fosse, la qualità della manovrina pasquale potrebbe essere considerata un pedaggio, obbligato e quindi in fondo discutibile solo accademicamente. E in effetti il governo prova a trasmettere il messaggio per cui finora si è agito per controllare l’emergenza, ma in seguito si potrà mettere mano a compiti più complessi e di lungo periodo, ai problemi strutturali del paese, cominciando naturalmente dalla ristrutturazione dello stato sociale. Anche questa, in realtà, ha tutta l’idea di essere un’illusione. Non c’è nessuna garanzia infatti che possa tramutare i metodi trafelati di oggi con il passo sicuro di domani. Non esiste alcun «grande dibattito con le forze sociali» che possa condurre a una soluzione indolore per ciò che riguarda il ridisegno selettivo del welfare state. E soprattutto non esiste una qualità politica dell’azione di governo soffocata dall’emergenza ma recuperabile in futuro allorché si potrà pensare alle grandi misure di riforma. La qualità politica del governo è esattamente quella che si è mostrata fin qui. È determinata dalla ricerca continua di un punto di equilibrio fra posizioni in sé conflittuali, in un arco che va da Dini a Bertinotti, avvicinabili solo attraverso equilibrismi quotidiani e mediazioni al minimo. L’insidia più sottile ma più distruttiva è che l’architettura del centrosinistra, vale a dire ciò che era stato il capolavoro politico-elettorale di D’Alema, si è sfaldata. Era nata non solo come una coalizione, ma come un compromesso virtuoso fra cattolici, laici e Pds, e aveva avuto un certo successo fra gli elettori perché li aveva convinti che l’Ulivo possedeva una migliore capacità di trattare i conflitti sociali inevitabilmente generati dal riaggiustamento dei conti pubblici. È bastato meno di un anno per mostrare che questa più elevata sapienza e la dimensione «progettuale» dell’Ulivo erano qualcosa di posticcio. L’unica realtà che conta è quella di un’alleanza che ogni giorno paga la stabilità con l’inefficacia. Nessuno fra i soci della maggioranza può permettersi di defezionare, perché al momento i costi sembrerebbero troppo elevati. Sono costretti a vivere insieme, i partiti del centrosinistra: solo che nessuno sa più dire come questa convivenza inerziale possa tradursi in programmi di governo.

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