Dovrebbe esserci pochi dubbi sul fatto che la questione dello stato sociale è influenzata da vistosi pregiudizi ideologici. È sufficiente osservare, anche nella dimensione italiana, il modo meccanico con cui destra e sinistra esprimono il loro atteggiamento sul welfare state. In genere infatti la destra liberista, cioè neoconservatrice, si caratterizza per concezioni che tendono a ridurre e limitare i programmi di protezione sociale; mentre a sinistra, soprattutto nelle fasce più radicali presenti nei partiti socialdemocratici e nei movimenti ambientalisti, la difesa del welfare è diventata una delle delle ultime bandiere capaci di suscitare pathos politico (anzi, il welfare radikalismus è probabilmente l’unica ideologia ancora possibile nell’era postmoderna, per quanto sia in qualche misura paradossale che la sinistra «antagonista» si aggrappi all’invenzione «socialdemocratica» per eccellenza). Ma anche la destra ha i suoi paradossi, se è vero che la retorica di Margaret Thatcher contro la spesa sociale non ha poi intaccato significativamente il sistema inglese di tutela collettiva: l’azione liberista ha avuto buon gioco nella deregolazione e nella scomposizione del mercato del lavoro, ma l’impianto dell’edificio costruito da Beveridge e Bevan non è stato sconvolto. Ciò che in questo momento forse non è del tutto chiaro, perlomeno in Italia, è che il ridisegno welfare è qualcosa di inevitabile ma non un problema neutro o semplicemente tecnico. È inevitabile per tutte le società europee, dato che lo stato sociale è stato messo in crisi dall’impatto demografico, cioè dall’invecchiamento della popolazione, e dal rallentamento della crescita, che lima progressivamente entrate e risorse dello stato. E non è un problema semplicemente tecnico perché ridefinire i contorni del welfare implica uno schema di riferimento essenzialmente politico, dal momento che si iscrive all’interno di un progetto di società futura. Un’ovvietà? Non tanto, almeno nel nostro paese. Perché se si trattasse di razionalizzare il nostro modello di welfare, che è stato definito «particolaristico-clientelare» (la formula è del sociologo Massimo Paci), il compito non sarebbe affatto proibitivo. Per citare solo il caso della previdenza, oltre diciassette milioni di pensioni di anzianità e di vecchiaia, insieme a sette milioni di pensioni di invalidità (di cui quasi tre milioni nel solo Mezzogiorno), illustrano non solo una situazione che vede l’Italia al vertice della spesa pensionistica nell’Unione europea, ma soprattutto la stratificazione di privilegi grandi e piccoli, di assistenzialismi concessi per patronage politico e poi consolidatisi per sempre, di spesa sociale usata largamente in modo improprio, di sommersione e occultamento dei costi. Se dunque ci si proponesse solo di disboscare ragionevolmente questa foresta pietrificata per eliminare sprechi storici e iniquità plateali, sarebbe sufficiente il lavoro di una commissione come quella coordinata dall’economista bolognese Paolo Onofri, che ha redatto per il governo una proposta complessiva di razionalizzazione. Ma si dà il caso che la questione sia profondamente diversa. Ciò che ci attende è una ristrutturazione ampiamente selettiva e programmaticamente discrezionale dello stato sociale, e proprio per questo segnata da un fortissimo contenuto politico. Non c’è insomma una formula bipartisan, buona per la destra così come per la sinistra. Non c’è un chirurgo «sociale» in grado di operare, cioè di «tagliare», in modo indolore. Si parte da una constatazione, e cioè che il welfare è costoso e inefficiente. Come ha messo in rilievo uno dei massimi specialisti italiani, Maurizio Ferrera, già verso la fine degli anni Cinquanta, l’«osservatorio sociale» della London School of Economics, culla del fabianesimo welfarista, stigmatizzava il costante aumento, rispetto a dieci ani prima, delle diseguaglianze di reddito malgrado l’impegno redistributivo dello stato. In generale i sistemi di welfare rivelarono ben presto la tendenza ad avvantaggiare i ceti medi piuttosto che le fasce di reddito inferiore. Senza dire della «deriva burocratica» che sembra spingere gli apparati di tutela sociale a trasformarsi in macchine autoreferenziali, che ingoiano risorse ingenti semplicemente per continuare a esistere, indipendentemente dalle prestazioni fornite. Tuttavia, detto questo, occorre spiegare qual è l’obiettivo di fondo della ristrutturazione dello stato sociale. Perché la destra neoconservatrice può limitarsi a sostenere la necessità di intervenire con una politica di veloce snellimento, nella convinzione che sgravare le economie europee dalla spesa sociale è la condizione per restituire slancio ai sistemi produttivi. Il premier inglese John Major lo ha esposto con sfacciata efficacia dicendo: «A noi i posti di lavoro, a voi la solidarietà»: vale a dire, a voi continentali il peso dei sistemi di protezione sociale, mentre noi inglesi, dimagriti, flessibilizzati, deregolati, ci riprendiamo la competitività. È un’asimmetria all’interno dell’Unione europea che in futuro potrebbe provocare seri problemi, nel momento in cui porrà il confronto fra i paesi sul terreno di una concorrenza condotta a colpi di «sconti» sociali. Ma è anche il tema che la sinistra deve elaborare in termini originali: perché se si limita a proporre tagli, non fa proprio niente di più e niente di meno di una politica di destra. Quando all’ultimo congresso del Pds Massimo D’Alema ha accusato il sindacato di essere «sordo e chiuso» rispetto alle politiche di flessibilizzazione del lavoro, è sembrato ripetere piuttosto meccanicamente formule mutuate dal common sense liberista (in uno dei saggi di economia più elegantemente anticonvenzionali di questi tempi, Le débat interdit, Jean-Paul Fitoussi smonta invece l’idea che la riduzione dei salari di fascia inferiore – «un compromesso inferiore al minimo» – sia una soluzione socialmente sostenibile ed economicamente funzionale allo sviluppo). Il problema fondamentale per tutta la sinistra che in questo momento svolge il suo apprendistato liberale, è di riuscire a concepire la bonifica e il rifacimento dello stato sociale come una condizione e un’opportunità di sviluppo. Come ha scritto proprio uno dei nuovi ispiratori del segretario del Pds, Pietro Ichino, il sindacato e la legislazione sociale hanno a lungo combattuto contro il mercato; adesso ci vuole un salto culturale per consentire a tutti i lavoratori di operare e competere nel mercato. Nello stesso modo a sinistra ci vuole una specie di rivoluzione intellettuale che consenta di trasformare concettualmente la cura dimagrante del sistema di welfare in una politica attiva di sviluppo. Non è né facile né immediato riuscire a tradurre in positivo una terapia che implica la necessità di amputazioni. Occorre mettere sullo sfondo l’idea del welfare come produttore di protezione sociale e riuscire a sottolinearne la possibile funzione di incentivo, di miccia in grado di sprigionare risorse. Lo stato sociale italiano è il mastice di una società invecchiata e soprattutto priva di mobilità. Nicola Rossi, un altro economista prestato alla politica, continua a sottolineare che l’insufficiente prestazione della pubblica istruzione contribuisce a formare una collettività divisa non in classi ma addirittura in caste, marcata da processi di ereditarietà che dovrebbero essere estranei a una società moderna. Oggi la scuola, proprio in quanto istituto fondamentale del welfare state, dovrebbe non solo svolgere il compito ottocentesco dell’alfabetizzazione, ma soprattutto individuare, premiare, promuovere quella parte di popolazione che, magari da posizioni sociali svantaggiate, mostra di poter migliorare la propria condizione relativa. In sostanza, l’istruzione pubblica dovrebbe essere riformata per diventare un principio di mobilità, di dinamismo sociale. Su altri settori del welfare, come la sanità e le pensioni, non dovrebbe risultare difficile intuire quali effetti di accelerazione dell’economia potrebbe avere l’introduzione di mercato
04.04.1997
SOCIETA' E CULTURA
L'urgenza di ridisegnare lo Stato sociale s'impone in Italia come in Europa: ma non è un problema semplicemente tecnico